martedì 29 novembre 2011

KoЯn – Korn

Entrare in un negozio di dischi e prendere in mano questo LP fa sempre un certo effetto: la copertina che dice tutto da se, un'ombra inquietante che si avvicina a una bambina seduta su un'altalena, il presagio di un terribile abuso o qualcosa di simile. Korn, l'album d'esordio della band omonima, è quasi un incubo sia dentro che fuori. I vocalizzi “old school rap” o addirittura “scatting” (come in Need To), il basso funk, i violentissimi distorti death metal e l'inserimento di strumenti non proprio consoni nel metal (come le cornamuse) rendono l'album praticamente unico. Siamo nel 1994 e questo lavoro può essere tranquillamente considerato come l'apripista del genere “nu-metal”, osannato dai tanti fan negli anni venire. Le band dell'epoca che hanno commercializzato, per così dire, la musica heavy metal (Slipknot, Deftones e altri) presero ispirazione proprio da questo lavoro partorito dalla mente confusa di Jonathan Davis (voce, fan accanito del synthpop anni '80), Brain “Head” Welch e James “Munky” Shaffer (chitarre), David Silveria alle pelli e Reginald “Fieldy” Arvizu al basso funkeggiante. La carriera dei Korn andrà sempre di più verso la discesa dopo questo album che oltre a essere quello più riuscito in termine di vendite, sarà anche quello qualitativamente migliore (di tutto il suo genere peraltro).

L'album si apre con i colpi cadenzati sul Ride della batteria di Blind, forse il singolo più conosciuto della band. Il gruppo mette subito le cose in chiaro con la violenza delle percussioni e delle chitarre a 7 corde ribassate fino alla tonalità del Si (altra particolarità del gruppo, contribuirono in qualche modo a incrementare l'utilizzo delle chitarre a 7 corde nella musica rock, dopo che il calo di fama della musica virtuosa le aveva fatte abbandonare). Il brano tratta i problemi di droga passati dal vocalist della band. Si passa a Ball Tongue: l'aggressività dei primi secondi è sicuramente la componente che verrà ripresa con più insistenza dagli Slipknot, che costruiranno in futuro il loro sound proprio su questo stile. Il basso funk e il cantato di Davis (che alterna lamenti strazianti a “growl” potenti fino a rime rap) rendono il brano unico: questo è lo stile dei Korn.
Clown è un altro brano potentissimo, quasi dissonante, la batteria scandisce un ritmo demoniaco. Concentriamoci sul testo: un ragazzo disadattato, schernito dai suoi compagni, lo stesso protagonista di Faget, altro gran pezzo dove i lamenti di Davis sono sentiti più che mai (il brano è fortemente autobiografico).

Passiamo a Shoots And Ladders: le cornamuse che aprono dolcemente il brano sfociano all'improvviso in una sfuriata metal, accompagnata da un testo confuso e malato, un'accozzaglia di filastrocche per bambini. Daddy, che chiude l'album, è forse la traccia più particolare, mai suonata dalla band live. In questa canzone, che si apre con un coro a cappella, il vocalist della band americana riversa tutto il suo disagio (la violenza subita in infanzia da un vicino di casa) tanto da scoppiare in un pianto sofferto alla fine del brano (vero a detta dei presenti alle registrazioni), poi c'è solo silenzio per 10 minuti, dopo così tanta rabbia.

Korn, in definitiva, è l'album più adatto per sfogare la propria rabbia interiore, lasciandosi trascinare da quella del gruppo americano, nel fiore della sua creatività, andata svanendo inevitabilmente con gli anni.

Voto: 8


Andrea Befera


giovedì 10 novembre 2011

The Smashing Pumpkins – Siamese Dream


Proporre un connubio di qualità tra la potenza dei distorti heavy metal e il gusto agrodolce dell'alternative più melodico è sicuramente il punto di forza degli Smashing Pumpkins. Nati dalla mente e dal corpo di Billy Corgan (ragazzo difficile e problematico, dalla situazione familiare al rapporto con se stesso), James Lha (chitarra sfarzosa, poi A Perfect Circle tra gli altri), la bassista polacca D'Arcy Wretzky e Jimmy Chamberlin alle pelli, esordiscono nel 1991 con Gish che già presenta alcune delle caratteristiche che poi diventeranno più prepotenti negli album successivi.
Siamese Dream comincia a prendere vita verso la fine del 1992, è uno degli album più sofferti e costosi della storia del rock senza ombra di dubbio: dal mixaggio quasi maniacale degli strumenti fino ai tempi sempre più stretti imposti dalla casa discografica (Virgin). Anche la situazione in cui si trovano i membri del gruppo non è certo delle più rosee: la dipendenza dall'eroina di Chamberlin lo costringe ad assentarsi sempre di più dalle sessioni di registrazioni, l'amore tra Lha e la Wretzky è appena finito e Corgan si trova quindi completamente da solo a registrare l'album della sua band. E' proprio così, infatti, che avverrà (o almeno per la stragrande parte dei pezzi). Passiamo all'analisi dell'LP:

Si parte con Cherub Rock che, sotto l'insistenza ferrata di Corgan, diverrà il singolo con cui gli “Smash” cercheranno di spingere l'album nelle classifiche. Il risultato non sarà tuttavia quello sperato perchè il brano è sicuramente di ottima fattura, ma di certo per niente “pop”. La marcetta iniziale di Chamberlin sfocia in un riff molto aggressivo con accordi di ottava. Molto bello il video (effetto pellicola sporcata da vernice colorata). Segue Quiet, in cui prevale la componente più aggressiva del quartetto americano. Il Big Muff (pedale distorto per chitarra che regna sovrano tra la strumentazione del gruppo) viene tirato al massimo sino a ottenere un suono quasi magico in Mayonaise, probabilmente il brano più riuscito dell'album e quello che esprime al meglio il sound degli Smashing Pumpkins (almeno nel triennio 92/93/94). L'esplosione chitarristica dopo il dolcissimo intro di chitarra è orgasmica.

I brani di punta, che renderanno le idee di Corgan e compagnia note in tutto il mondo, sono di sicuro Today e Disarm. Sono due brani favolosi, quasi poetici, ricchi di armonie e ricami di ogni tipo. Ricordiamo anche Hummer, brano preso spesso poco in considerazione, è una perla, al contrario (nonostante l'intro piuttosto fuori luogo). Luna, l'ultimo pezzo degno di grande considerazione, è dolce e smielata, forse anche troppo.

Per concludere Siamese Dream è un gran disco per tutti gli ascoltatori romantici e sognatori, coloro che, anche se non sembra, hanno sempre qualcosa da dire come gli Smashing Pumpkins.


Voto: 8/10


Andrea Befera

martedì 1 novembre 2011

Mad Season – Above



Uno dei supergruppi rock meno conosciuti ma in compenso più interessanti della scena grunge americana di metà decennio 90, i Mad Season lasciarono agli annali solamente due lavori e un contributo per una compilation di tributo a John Lennon (con una cover di “I Don't Wanna Be A Soldier”) : il primo, “Above”, è un meltin pot di sonorità moderne e classiche, che spazia dall'acid blues alla psichedelia, ricamando con testi e accortezze puramente “grunge” il tutto; Il Live At The Moore è l'ottima dimostrazione di come il gruppo fosse compatto e ben congeniato per la dimensione live. Nati nel 1994 da un'idea di Mike McCready (chitarra, Pearl jam) e John Baker Saunders (bassista blues navigato che vantava varie collaborazioni – The Walkabouts) incontratisi in una clinica di riabilitazione dalle droghe, vantavano la presenza alla batteria di Barrett Martin (Screaming Trees, ma anche i devastanti Skin Yard di Jack Endino) e niente meno che il vocalist degli Alice in Chains, Layne Staley, in pausa momentanea dopo la pubblicazione di “Jar Of Flies” (vedi recensione sul blog). Concentriamoci su Above.
L'LP parte con Wake Up, una lenta litania da dopo sbornia: l'intro di basso ci rapisce già dalle prime note fino all'entrata in scena molto pacata di Layne Staley, evocativo come sempre. Il brano vanta un assolo straziante, blues e sanguigno. Passati per la sfuriata psichedelica di “X-Ray Mind”, dalla batteria quasi tribale, si arriva alla vera chicca del disco, “River Of Deceit”. Ballata dolcissima e introspettiva, “rappresenta quello che è il vero spirito del gruppo” (parole di McCready), prende ispirazione da uno dei libri letti da Staley in quel periodo (The Prophet di Khalil Gibran) ed è quasi ipocrita da parte dell'ascoltatore non leggere i riferimenti alla dipendeza, che bene o male legavano un po' tutti i membri del complesso. Tossici visionari, quasi poeti maledetti, I Mad Season toccano alte cime artistiche anche con Long Gone Day, che vanta la partecipazione di Mark Lanegan (sempre Screaming Trees, come Martin). Le prestazioni vocali dei due sono esemplari.



La carica esplosiva grunge prende il sopravvento su due tracce carichissime, rudi e vagamente garage: “I Don't Know Anything” e “Lifeless Dead”. La prima (anche singolo) è il simbolo della parabola del grunge, l'ultimo grido straziante di un genere ormai destinato ad un evitabile caduta. Riguardo a quest'ultimo pezzo sono consigliatissime due versioni: la prima per Self Pollution Radio (il video è facilmente trovabile), radio con musica “live in studio” a Seattle, con base sotto l'abitazione di Eddie Vedder e gestita da lui; la seconda del Live At The Crocodile 1994, famoso locale sempre della città di Washington. (ancora rintracciabile, con tanta pazienza, il bootleg).


La storia dei Mad Season è comunque molto breve: Layne Staley ricadrà nell'incubo della sua dipendenza, lasciando sempre meno tracce di se fino a scomparire del tutto nell'Aprile del 2002 (poco prima ricordiamo la collaborazione con Tom Morello, tra gli altri, nel brevissimo progetto Class of 99). Intorno al 1995 giravano voci riguardo alla possibile entrata al posto di Staley di Mark Lanegan come vocalist, (considerata già l'amicizia col gruppo e la collaborazione in Long Gone Day) ma questa speranza verrà distrutta con la morte di John Baker Saunders nel 1996, per overdose da oppiacei.

Il passaggio dal grunge al post grunge è segnato senza dubbio dalla toccata e fuga dei Mad Season, che hanno voluto dare il loro parere riguardo alla fine dell'espressività del genere (in poco più di un anno) prima di scomparire per sempre. Consigliato.

Voto: 7,5/10


Andrea Befera